Il Mio Blog non vuole essere un monologo, ma un invito all'incontro: pertanto sono graditi i commenti e il succedersi degli scambi che ne conseguono.
Buona lettura!

mercoledì 27 dicembre 2017

Venticinque dicembre


Venticinque dicembre, un giorno di festa. 
Stamane erano quasi le nove quando son scesa per strada e l'ho sorpresa deserta. Le chiome degli alberi, allineati sul ciglio, sembravano ridacchiare contente, un pò smosse dal vento: arietta frizzante e un'esplosione di luce da quel cielo azzurro inondato di sole.

Ho camminato a passo spedito verso il mio appuntamento, nel silenzio del sorriso ambientale: io sola, la strada vuota e qualche pennuto a planare lassù, nel trasparente emisfero, sopra di me.

É raro poter respirare aria tanto leggera in questa città soffocata.

Palazzi vecchi e un pò sonnacchiosi, familiari e di strano conforto, mi danno il buon giorno mentre raggiungo silenziosa la sponda del fiume; ne seguo il percorso posando i miei passi tra le foglie invernali, alcune a riposo per terra, ed altre ancora aggrappate sui rami.  

 Ippocastani maestosi, fieri e gentili, da sempre omaggiano l'acqua che scorre briosa, chinandosi giù, verso la vita che, in veste animale, esplora percorrendo la riva e scivola via sulla superficie fangosa.
Intanto che radici ostinate venute su dalla terra, hanno conquistato lo spazio e aperto ferite sullo strato d'asfalto, obbligandomi al gioco già noto di allungate e saltelli.

Una bella città, senza il trucco pesante degli screzi diurni e degli sfregi ambientali. Un'occhiata agli spalti, tra la ruggine accesa delle poche foglie rimaste sui rami contorti, che scendono giù come ricci scomposti dalla nuca di una ragazza vivace.

L'acqua si muove veloce, sospinta da forze silenti e non viste, e mi carezza i pensieri, rendendoli finalmente leggeri. Li porta con sé, attraverso gli antichi archi del ponte di pietra, quel ponte che tutti chiamano "rotto".
Ferito, abbattuto, ricostruito, aggiustato, rifatto e poi lasciato così, legato alla terra da lunghi bracci di ferro, che come frecce vistose, denunciano l'ostinata potenza di chi, nell'acqua, non ci vuole proprio morire. 

 Quel ponte che ha vinto, alla fine, contro correnti ed ingrati alluvioni, contro la condanna impietosa del tempo. 
Dall'epoca antica, quell'arco, custodisce il connubio tra l'acqua e la terra, e non vuole mollare. 
Così rimane dov'è, ad insegnare un messaggio che trasfonde una bella speranza.

Mi soffermo a guardare i gabbiani, e volo con le ampie ali per qualche momento: c'è così tanto spazio lassù...

Costeggio palazzi che sanno di storia, giardini e fontane guizzanti e ricolme, incontro il tempio che è detto di Vesta e che forse, però, è stato fatto per Ercole (nel contenzioso prevalse comunque la Chiesa, che in tempi propizi lo ridusse a triste gazebo).

Vesta, custode prescelta del sacrale fuoco vitale, del calore domestico che mai dev'essere estinto; Ercole, il cui fuoco interiore forgiò immemorabili gesta, ed arrivò ad ottenere il diritto di passare da essere umano a divino.

Ed ecco gli opposti incontrarsi: il fuoco di Vesta e l'acqua di Ercole, l'eroe invitato da Giove al suo fianco dopo che una moglie gelosa, per smanie di ossessivo possesso, arrivò quasi ad ucciderlo nella mente e nel corpo. 

Uomini e dei, in un mondo fatto di ambrosia e di comportamenti meschini: racconti inventati per dire a noi stessi che, in fondo, va tutto bene così.

Ma oggi é davvero natale: di là dalla strada nemmeno un turista dei molti che, in ogni giornata si accodano in file estenuanti per onorare quello stupido rito nella fessura della grossa medaglia dal viso barbuto.
In passato, da quel foro, passava solo dell'acqua, ma da generazioni infinite si intrufolano mani arroganti, sostando sul bordo di pietra che diviene sempre più liso.

La crudele bugia degli adulti che inculca, sulla via dell'insulto, la certezza del fatto che al controllo supremo non si possa sfuggire, ed impone il giudizio: chi ha mentito nel corso della propria esistenza, sia pure per motivi di scarsa importanza, non potrà ritirare mai piú la mano dal terribile morso del mostro di pietra.  

Che mostro, in origine, di certo non era, ma solo l'effige di uno spirito acquatico, dedito ad accogliere l'acqua piovana per convogliarla altrimenti.

Eccolo l'uomo, consapevole della propria impotenza, spalancare la ruota multicolore e gonfiare il suo petto: camuffare il reale per sedurre chi é accanto, e poterne finalmente disporre.

Ecco l'eroe, che per finire all'Olimpo deve subire le prove piú ardue, fino a perdere tanto di sé, cosí come l'antico pilone del ponte rimasto senza compari.

Scivolano via questi sogni, e con essi va l'acqua veloce, sotto a quell'unico arco rimasto quaggiù, che mi invita a guardare al di lá...









giovedì 14 dicembre 2017

Dublin


E così mi ritrovo a inserire maglioni di lana in una valigia da stiva; un amico mi lascia ai voli internazionali di Fiumicino, e in tre ore i miei piedi si poggiano su terreno irlandese.

E chi lo avrebbe mai detto? Un vento freddo mi dá il benvenuto, e il nevischio mi gela il volto. Guardandomi intorno, la prima sensazione che provo é quella della calma, di una terra ordinata e pacata. 
Due colpi di dita sull' app appena installata e un taxi si ferma a pochi metri da me: é disastrato e il suo interno puzza di cipolla stracotta. Quell'uomo minuto dalla pelle rosea e gli occhi di vetro deve aver consumato da poco il suo pasto. Fuori fa freddo, che colpa puoi fargli? 
Ad ogni modo l'odore si tollera piú del gelo lá fuori...

Formulo una domanda in inglese intanto che osservo le case, che sfuggono via davanti ai miei occhi: una ripetizione costante di costruzioni basse e continue in pieno stile georgiano.
 I portoncini di ingresso sono di colori vivaci, uno diverso dall'altro. 
Il grigio del cielo abbraccia questo rosso mattone nelle sue sfumature, e la sensazione che provo é gradita. In sottofondo il chiacchiericcio allegro dell'uomo al volante.

Sono qui per lavoro, con un collega che non ho mai frequentato, e mi trovo in un luogo mai visto.
L'albergo e poi l'ufficio: una infinita riunione con personaggi del luogo, che si esprimono con suoni complessi alla velocità della luce... L'irlandese, mi confermano loro, é un inglese diverso, di origine celtica. Sostanzialmente, un'altra lingua.

Uno di loro sorride della mia confusione. Ha da poco superato i cinquanta, e a scuola, mi dice, non ha mai studiato l'inglese. 
 Sono curiosa di sentire quei suoni, ma la richiesta accende uno sguardo assassino sul volto del collega italiano, cosí non insisto... Peccato.

 Il palazzo in cui è sito l'ufficio é di tre piani e presenta decorazioni graziose; qui alcuni spazi sono in comune: la cucina attrezzata, i bagni e la sala riunione. 
Le temperature degli interni sono roventi, mentre fuori si gela. Guai ad aprire una finestra... Vetrate enormi che consentono alla luce grigia del giorno di illuminare gli ambienti.

Moquette ovunque, foltissima e avvolgente, e spesse tende pesanti a custodire il calore.

Bella città, mi dico, piena di parchi, pulita, e ben ordinata. Ovunque mi giri vedo portoncini robusti dai mille colori accesissimi, e pub sempre aperti, dalle caratteristiche insegne. 
Questo luogo sa di Altro, sembra sospeso nel tempo, e trasmette un'intimità nuova. 

La sera luci soffuse colorano case e locali, facendo brillare l'acqua del fiume, che scorre gentile nel suo letto, attraversando una miriade di ponti leggeri. Qui i pub sono ristoranti a tutti gli effetti, e sono davvero accoglienti, con le loro luci basse, i musicisti, i ragazzi un po' brilli e quel brusio di gente connessa. 

Si beve e si mangia, seduti all'interno, le cameriere si scusano chiedendo di saldare il conto in via preventiva, a consegna avvenuta: hanno molto da fare, sommerse da piatti stracolmi di vivande locali. Non posso resistere, e nonostante sia tardi decido per lo spezzatino di agnello stufato: in guazzetto con vegetali multicolori. La sommitá é cosparsa di anelli verdastri che mi sembrano olive... Il primo che mordo si rivela subito per quello che é: un peperoncino potentissimo, aromatico e davvero crudele. Nel complesso é davvero un piatto buonissimo, tenero e delicato. 

Svaporo la mia pinta di birra fruttata, intanto che provo a filmare il locale: stiamo cenando al The Church, una chiesa, appunto, adibita a locale all'inizio del secolo. A parte i tavolini, le luci calde ed il palco di legno su cui esibiscono gli artisti, siamo proprio in una chiesa dalla pianta a croce latina, con le sue finestre colorate, il rosone ed i bassorilievi sul muro. 
In fondo alla navata troneggia, imperioso, un enorme organo. Rumore di tacchi sul legno, una ragazza che gira su se stessa in maniera perfetta, strumenti che suonano e bagliori accoglienti, sullo sfondo rumoroso di una tipica serata irlandese.

Usciamo e camminiamo verso il fiume: locali e freddo... Entriamo in un altro locale e ordiniamo una birra per uno. Una ragazza traballa alzandosi dallo sgabello: diversi bicchieri vuoti sul tavolo al quale è seduta; la musica sale vorticosamente di tono. 

Il collega scherza e ride, mi mostra foto dal suo cellulare e rosicchia noccioline salate per contrastare l'avanzata dell'alcool. So che non è un bevitore, e ne sono felice perché torneró presto in albergo, a tirare le somme della lunga giornata.

Mi trovo nel nord dell'Europa, in un'isola cosí verde da essere definita l'isola di smeraldo, in una città che si affaccia sul mare, in cui il sole fa capolino di rado. Al porto, ho saputo, ci sono sempre le foche, ma non sembra possibile andare... Orari e distanze, e doveri legati al lavoro.

Mi limito adesso a vedere la sfilata dei bus a due piani, color giallo fumetto, che sfilano rapidi secondo un senso di marcia contrario a quello cui sono avvezza. 
Cammino nel freddo e mi accorgo di non avere più i guanti: devo averli lasciati cadere in un pub. Dovrò comprarne di nuovi: il gelo entra dentro il mio corpo costringendomi ad incrociare le braccia. Cammino veloce, senza sentire le gambe, affascinata dal fiume e dal ponte leggero che lo attraversa.

In strada molto silenzio, poche persone e scorci deliziosi che sembrano appartenere a tempi diversi.
Me ne ritorno finalmente in albergo, con lo stomaco pieno ed una certa stanchezza. E' tempo di chiudere gli occhi.

Oppure di aprirli?





mercoledì 13 dicembre 2017

PLAGERIA


Ho ricevuto un'offesa. Qualcuno, in mia assenza, ha parlato ad altri di me. 
Quel qualcuno ha raccontato vicende e lamentato situazioni che nulla hanno a che fare con la mia persona.

Per tempi, per modi, per nulla.

Sono stata lo scudo e lo strumento per colpire altri, e nessuno me ne ha chiesto il consenso.

Strategia: ideare un programma di azione per raggiungere l'obbiettivo mirato.

Cosí una immagine, artificio infame sovrapposto ai miei modi, una veste falsa appositamente intessuta, mi ha avvolta come un mantello mimetico per eleggermi attrice in una battaglia tra estranei, uno scontro che non mi riguarda e non mi interessa. 

Un sequestro di vita: la causa di una indignazione sgradita.

Tempo fa ho letto qualcosa sul concetto di plagio, espressione oggi nota per condannare le deplorevoli azioni di chi, per scopi privati, si appropria dei beni di altri.

Un termine peró utilizzato in principio in maniera sottile, buono a chiarire davvero il perché della punizione sancita.
 
La gravità del reato era riferita all'abuso che tale azione aveva operato sull'identità del malcapitato di turno, e soltanto in un secondo momento sul bene in questione.

Il possesso di un bene implica sempre un trascorso di eventi che lo ha reso possibile. E questo trascorso appartiene alla vita di chi lo possiede: azioni, pensieri, emozioni, e via discorrendo.

Prendere qualcosa a qualcuno é soprattutto un furto di vita vissuta, un'azione terribile, che gli antichi romani destinavano solo a chi era tenuto davvero un nemico.

Alla morte di questi nessuno avrebbe piú saputo nulla di lui, niente sarebbe rimasto a ricordarne il passaggio terreno. Nemmeno un oggetto, nemmeno una scritta. Con la damnatio memoriae una intera esistenza subiva il sequestro più estremo, e veniva condannata all'oblio.

L'uccisione di un morto: il suo annullamento, nulla più che potesse ricordarne o ricostruire il pensiero. 

Nel mio caso, però, con me ancora in vita, una immagine falsa é stata sovrapposta alla mia, e diffusa illecitamente per scopi privati durante un mio periodo di assenza.

Informata dei fatti, ho aspettato. Ho atteso che la calma tornasse e che il momento opportuno guardasse alla porta.

Fingendomi ignara ho avvicinato singolarmente i colpevoli, e nel fare le dovute domande ho lasciato che gli uni accusassero gli altri davanti ad amici comuni.

E poi ho soffiato richiami nell'aria.

A quel punto sono uscita di scena, ed una nuova battaglia si é accesa, a disgregare il volano sgradito.

Un avatar può esser diffuso in maniera virale, ma in modo altrettanto veloce riceve smentita da chi ha in mira di farlo.

Il plagio è un'azione nefasta e indecente.... E dagli antichi latini ho imparato ad eliminare i residui.