Il Mio Blog non vuole essere un monologo, ma un invito all'incontro: pertanto sono graditi i commenti e il succedersi degli scambi che ne conseguono.
Buona lettura!

mercoledì 22 luglio 2015

La sfida


Raccolgo l'invito di Mauro e rispondo alla sfida. 

...Entrando nell'inconscio negativo femminile...


 C'era una vecchia, che stanca nel corpo,
voleva pur vivere antichi piaceri.
Quei giochi e quei lazzi, che spesso osservava, ben poco viveva, e molto soffriva!
Di giovani donne un pò si serviva per mettere in moto l'esigenza lasciva.
E donne e fanciulle, ignare del modo, a sé avvicinava e poi se le usava.
Uomini e donne, in miope furore, l'un l'altro scambiavano sensualissime ore.
Ma dopo una volta e poi un'altra ancora
Il corpo mollava la triste signora.
Scavata nel volto, svuotata nel corpo, tra lacrime tante,  mai piu' lei riusciva a sentire l'amante...
Lui pure non ride, ma solo si siede, e triste nel cuore non sente più amore.
La vecchia ha mangiato ma senza godere, e dondola lento il suo grosso sedere,
che parla e che chiama le povere genti a perder se stesse tra i molti viventi.
La bimba all'amica, guardando il diario risponde all'invito che crea il suo divario.
A dir, prima, mi piace tra foto ed inviti, ella spinge quel fuoco che accende la brace.
La gara abbia inizio, dalla vecchia col vizio, a chi tra le tante sembrera' la più aitante!
E lungo è il serpente che striscia rasente, vicino allo sguardo di chi é indifferente.
La mela rifiuta, ed il sacco di juta, chi veglia la notte nel suo immantinente.  Denuncia la vecchia, poi spezza la scopa. E sfuma la gara infelice
che in vita assai poco si addice.

domenica 12 luglio 2015

Prendere un granchio


Diciamo di prendere un granchio per dire, piuttosto, di aver commesso un errore. Con questa espressione, nel gergo normale, si allude a una certezza tradita, e alla delusa emozione che  tosto ne segue. 

Ma il granchio, perché?

È un animale piccino, che si muove al riparo e corre veloce davanti alle insidie. Si sposta slittando di notte, quando il sole e' lontano e i nemici non posson vederlo. Si traveste dei colori del suolo sul quale saltella, che sia l'oro graffiato del lido o la scura tintura rocciosa, e ha occhietti talmente in allerta che sporgono fuori dal suo corpicino.
Per fuggire e' munito di zampette sottili, che un poco da un lato e un poco dall'altro, rendono obliqua l'andatura veloce.
E' armato soltanto di piccole pinze che, a guisa di manine robuste, trattengono il cibo vicino alla bocca. Si difende con quelle da chi vuole affrontarlo, ma se preso da dietro rimane indifeso.

Insomma? Que pasa?

Tutto inizio' in una barca, così si racconta. Quando butti la lenza nel fondo del mare, se senti tirare, ti aspetti un bel pesce. E quindi ti aggrappi al tuo mulinello e cominci, eccitato, a girare. E la preda combatte, cercando la fuga e spingendoti quindi a provare manovre ...Fin quando non esce dall'acqua, a mostrarsi, il bottino. Ma a volte, a dispetto di chi resta in attesa, sul fondo del mare si aggancia un granchietto. Ha fame anche lui, e l'esca piovuta é un invito per tutti!
Scatta il segnale ed il filo va su. Lui muove e s'agita tutto, e tira e si torce cercando di uscirne. Chi é sopra si aspetta un bel pesce, ma a gioco concluso rimane un pò male.

Questo s'intende con tale espressione: confidare in qualcosa che tale non era!
La storia è carina, ma da me mai vissuta quando ero nel mare..Eh si, che ci vado a pescare!

Ahi, ma di granchi ne ho preso in cuor mio!
E la rabbia poi dopo, e che delusione!

Una volta pensavo di avere un'amica. Era un'allegra ragazza, dallo spirito arguto. Un po' appiccicosa, sia pure, e molto loquace. Però a me piaceva, non so bene perché. Aveva cadenza un pò greve, in netto contrasto con la figura stuccata che spesso esibiva: acconciatura perfetta su un trucco studiato, e accessori adeguati. Ma dentro era allegra, e sparava battute inattese.
Purtroppo il suo corpo era gonfio, di cose non dette e di scelte non fatte. E il peso la  schiacciava per terra. Temeva il potere e l'autorità...E, subendo a tal guisa, perdeva se stessa, ogni giorno un tantino. Chiedeva in silenzio il mio aiuto, e io ci ho provato. Le ho dato un battello per sé, e poi l'ho affiancata. Ma le onde le davano noia e gli scogli le incutevan timore...
Io mi accorgevo e fingevo di no, e con me la portavo nel mare agitato. Guidavo il battello da sola mentre lei, lentamente, ritraeva se stessa.
Così le ho parlato, ma con stupido orgoglio ha mentito. All'amica di fuori, che voleva aiutarla, e a quella di dentro, che perdeva ogni giorno il respiro. Lo specchio ridava un'immagine brutta, di chi dice e non fa. Che teme e che trema, con stupidi freni, ma non vuole lasciarlo vedere. Come il trucco ben fatto su un viso che é pallido e smunto.
E lì l'ho perduta.
 Maggiore la tema e scarso il coraggio, é scesa turbata e davvero confusa, rimasta sul greto a guardare, accusando chi invece la voleva con se'.
L'amico è mutato in nemico, parole di odio a demolire chi resta, assoldando alleati a sminuire il valore di chi muove e vuol fare. Di chi, dopotutto, sa fare, rendendo cocente, pur senza intenzione, il fallimento dell'altro.

Un bel granchio, signori, tirato su con la forza dopo tanto provare: la goccia vivace che avevo intravisto s'é spenta, seccata dal corpo pesante di chi non dice e non fa.
E ieri guardavo quel volto pittato, i capelli piegati nel modo più giusto, e lo sguardo umiliato di chi già lo sa: il granchio è un animale piccino, che si muove al riparo e scappa veloce davanti alle insidie; è armato soltanto di piccole pinze che, a guisa di manine robuste, trattengono il cibo vicino alla bocca.

Coraggio non ha.

Rimane sul fondo del mare o su rocce roventi. A volte ci muore, essiccato dal sole. O viene pescato per sbaglio da chi invece si sforza di prendere un pesce. 







mercoledì 8 luglio 2015

Commiato

E' arrivata la sera col cielo grigio e la schiuma nel mare.  Osservo un pesce vivace che scoda a fior d'acqua, tra la roccia e la sabbia. La superficie increspata di bianco e di azzurro.
Saluto il bel mare che assiste la nota del mio malumore. Che romba e che tuona tra le rocce che ammiro, inoltrandosi svelto in ogni pertugio. Seduta sulle tiepide pietre, respiro il profumo dell'aria, tra i massi e le onde, e contemplo bruniti granchietti sorvolare il terreno con le zampe sottili.
Saluto il tramonto che si cela nell'umore dell'aria, tra le nubi corpose del cielo. E questo vento leggero, che soffia sull'acqua e sul mondo.
Ringrazio i bambini dai capelli arruffati, che mi hanno dato allegria per un pò, giocando coi legni e col nulla, dividendo dolcetti e ceffoni. Sorrisi e risate tra occhiate furtive, occhioni vivaci e  folti riccioli scuri, raccolti in nuvolosi ciuffetti.
Ringrazio la terra dal colore brunito e dal sapore del sale, sferzata dal sole e dal vento, assediata dal mare. Austera nella sua solitudine e nuda nella sua povertà. Primitiva ed estrema. La terra che quasi mi ha ucciso e che mi ha reso la vita.
Mi congedo dai piccoli uccelli, che contrastano il vento violento con veloci saltelli, e balzano in basso senza aprire le ali.
Saluto la gente del posto, indolente e puerile,  che stenta e sorride, vivendo di pesca e di strenuo lavoro. O che vaga nel nulla, a consumare il suo tempo.
Saluto l'incontro casuale che mi ha stretto la mano, ascoltando i miei suoni e offrendomi i suoi. 
Abbraccio  infine l'amico di sempre, che mi sospinge nel mondo con amore gentile.
E mi congedo dal Monte Leone, disteso sul lungo orizzonte, l'arcano custode del tempo.

lunedì 6 luglio 2015

Confine?

Oggi ho volato nell'acqua. Era caldo e il sole splendeva. Travestita da pesce, son scesa veloce nell'altra realtà. Ho abbracciato la vita diversa, dove ogni mossa é più lenta. E più dolce. Scivolando tra correnti robuste, ho osservato le piccole dune e i crepacci, contemplando piccoli pesci che cercavano cibo.

 Dimore dai muri rugosi, di mille colori, e tetti rigonfi, macchiati di giallo e di arancio. Bottoni fioriti tra i ciuffi spostati dall'acqua.  Lentezza e la calma in quel mondo ordinato! 

Lanciavo il mio corpo e osservavo la vita. Sul fondo piccoli sassi lastricavano tutto fino alle strisce ondulate di sabbia, e poi qualche stella marina. Le forme sottili e allungate. Pinne velate e corpose vagavano ovunque. Io non facevo paura, appartenevo all'ambiente.  Un passante tra i tanti, nello spazio comune. Ognuno per sé, a cercare qualcosa. Chi sosta e chi va.
Gomitoli d'erba qua e là, mi venivano incontro. Frammenti di roccia e piccoli gusci... La vita dovunque.
Ho girato sul dorso per guardare all'in su: uno strato vitreo tra il bisbiglio del mare e il frastuono dell'aria. Ho lasciato che il corpo salisse da sé..Ho visto ciò che vedono loro? Un orizzonte più chiaro fino al dolore che la luce accecante mi impone, oltre il confine. Un uomo, a distanza, si allunga sull'acqua. Si tiene alla roccia. Veste di rosso e dirige una canna sul mare.  

E se io fossi un pesce? 

Mi volto e riscendo nella pace silente. I miei piedi assecondano l'acqua, corposa, nell' amica penombra. E volo a vari livelli, mi aggrappo alle pietre porose e mi spingo più in là. Sorvolo gli spacchi e le tane, sorprendo eleganti viventi che si voltano sincroni e fuggono via. Una scia di colore in uno sfondo lunare. Io salgo e poi scendo, forzando i polmoni e le orecchie. Gioco con l'acqua che carezza il mio corpo, e proseguo il mio viaggio da sola, nel mondo diverso, così familiare. 

 E poi mi appare davanti: é grosso e arancione, la bocca potente. Nuota tranquillo e non si cura di me. Cerca le prede scrutando le rocce, si sposta e poi va. Bellissimo e solo.

Immersa nell'intimo mondo contemplo, ammirata, quel traffico lento, che scorre percosso dall'onda e diretto da correnti continue.

Uomini e pesci: universo comune, separato dall'acqua e dai modi. Io nuoto con loro e cammino con gli altri. Mi tuffo e riemergo...Col corpo che fila veloce spostando via l'acqua. Il calore del sole mi brucia le spalle, al di là del confine. Mi culla la voce del mare che viaggia con me, respirando. 

Il pescatore si china sull'acqua, ha intravisto qualcosa e la cerca. Sorrido carezzando l'idea di essere un pesce, che guizza e che salta nell'aria e nel mondo di giu'. Se fosse questo il mio mondo? Ma in fondo lo é...

Mi rovescio ancora sul dorso, e guardo il sole che splende mentre il mio volto riemerge al confine.

domenica 5 luglio 2015

La (non)Dotta Ignoranza.



«Pape Satàn, pape Satàn aleppe!»,
cominciò Pluto con la voce chioccia;
e quel savio gentil, che tutto seppe,
disse per confortarmi: «Non ti noccia
la tua paura; ché, poder ch'elli abbia,
non ci torrà lo scender questa roccia.»


(Dante Alighieri, Divina Commedia - Inferno, VII)


Nel IV cerchio dell'Inferno, il maestro Dante punisce scenograficamente, presentandoli, due gravi peccati dell'umanità': l'avarizia e la prodigalità.

L'una intesa come arida carenza-esigente, egoistica sete disperata e agognante desiderio di potere; l'altra, all'opposto, e' la caratteristica di chi spreca, di chi sperpera.

Entrambe le categorie condividono una assoluta incapacità gestionale, il peccato di non saper fruire i propri talenti, e la colpa di lasciarsene prevaricare in una spinta ritorsiva, che toglie il senso e uccide il piacere.
Rimane, pronta, la violenta ritorsione sugli altri attraverso l'offesa. In un triste inutile cammino che nella sua infinita', non dona forza, ma ruba vita.

L' inarrestabile faticosa marcia che spingendo, trascina nell'inutile.
La punizione descritta consiste nel forzoso reiterarsi del reciproco insulto tra rei dannati, che percorrono simmetricamente strade analoghe - un gruppo da un lato, un gruppo da un altro - fino a reincontrarsi a fine percorso, gravati da inutili pesi sul petto. 
  Strade che raggiungono il loro apice solo nel punto di riinizio verso la direzione opposta.

Una estensione del mito di Sisifo: non si espone più soltanto l'individuo che, per conseguire il proprio falso valore e' costretto ad attuare un cammino faticoso e inutile, al prezzo di infiniti sforzi inappagabili. 
   Emerge la dimensione sociale: i peccatori, divisi in due schiere, nell'illusione di seguire percorsi diversi (addirittura diametralmente opposti) finiscono per incontrarsi e poi scontrarsi: si offendono, e si accusano vicendevolmente. Per poi ripartire, in un inizio che non ha mai subito davvero interruzione.

..Pape satan..

Osservo l'incarnazione del Contrappasso.  
 Accade, inesorabile, e preciso. E si abbatte su chi, subendo, non coglie, e logorando se stesso inveisce contro il Fato, e contro l'umanità tutta. 
Lacrime di stupore e grida di incomprensione. 
 Vagiti infernali dell'eterno infantile.

Accadimento esatto in situazione!


La mancanza verso se stessi genera l'errore, la sua ulteriore ricaduta nel sociale definisce il reato.

La mancata evoluzione personale, l'Ignoranza, produce la violenta eruzione infantile su chi sta d'intorno, danneggiandolo.

Così la donna che non sviluppa le proprie attitudini, lasciando in letargo il proprio potenziale. Una pigrizia che non giova a se stessa ne' ad alcun altro. Assume piuttosto il ruolo di mamma senza averne davvero il piacere. 

Le voci, quante voci le hanno Trasmesso la utilità di quel ruolo. La sua eternità, la sua inviolabilità.  E bisogna sbrigarsi, sennò poi si sfiorisce.... E si perde l'occasione... Pensa alle donne che non possono averne! Così la madre prima di lei, e la nonna prima ancora. E l'amica, e la società tutta.. Beh, quasi tutta.
Ella svilisce la propria persona rinunciando al suo modo per ottenere un riconoscimento facile, gratuito, garantito dalla società.

 Non proprio gratuito.

Col tempo, però, il bambino vuole incontrare il mondo, fare scoperte, toccare con i suoi occhi  ciò che fa nuovo, crescere e diventare adulto. Se questo, però, gli viene concesso... La "Mamma" che fa? Il suo ruolo finisce,  e si ritrova costretta a cambiare.
 Ma come? 
Non ha curato se stessa e non ha sviluppato strumenti... Iniziare ora, noooo... E' troppo tardi, eh!!! ... The show must go on: si può forzare la mano, e congelare quel tipo di rappresentazione in modo perverso e alienante... Finché morte, che così li unisce, non li separi: la mamma (l'errore) con il suo bambino, stupidamente compiacente (il reato).

 Magistralmente M.R. descrive la madre antibiotica. Suggerisco un serissimo approfondimento a chi, tra donne e uomini, vuole incontrare Persone. Almeno la finiamo di parlare di "quote rosa" e di altre menate filo e antifemministe!!

Un figlio cresciuto da una madre bambina (l'errore) come potrà divenire persona (il reato)? Cercherà a sua volta la rozza scorciatoia illusoria con devastanti ricadute nel sociale...

O la collaboratrice del capo, che prostituisce (non sempre in senso metaforico) la propria persona per ottenere una posizione, un ruolo di prestigio. E mantenerlo. Mancando pero' le competenze necessarie, quelle aziendali, di li' in poi le scelte adottate dal capo voglioso (persona evoluta?) condurranno a piani sbagliati. E a conseguenze fallimentari.
 Per il capo, certo; per la collaboratrice (l'errore e l'errore); ma anche per tutti coloro che lavorano nell'azienda (il reato).


Milan Kundera definisce l'agire degli uomini la leggerezza dell'essere per il suo accadere "spontaneo", non programmabile. E tale immediatezza assume, nei suoi romanzi, le tinte di una pesantezza estrema, insostenibile, a causa delle conseguenze provocate.
 Accadere ritenuto necessario (grosso, grossissimo errore. Reato esso stesso!!)

Questa storia, in realtà, ha un titolo diverso che la rimanda all'intollerabile gravame dell'essere ignorante.
 Una sana evoluzione contrasta la necessità del divenire, aprendo alla fluidità SOSTENIBILISSIMA dell'essere. Ci vuole pazienza e molta attenzione, la volontà e l'umiltà di accogliere e saper leggere - ovvio, ma né facile né scontato - le immagini che formuliamo costantemente in noi, momento dopo momento... Semprissimo (M.R., certo, chi altri?) ! Immagini di monito e di supporto che, naturalmente, guidano il nostro cammino.

Il buio, il dolore, la claustrofobica agonia della minorità denunciano non l'essere ma un suo modo distorto, declinazione perversa. 

Aristotele, con cipiglio, punta contro il suo dito indice.*
 Dell'essere si parla in tanti modi, è vero, ma son pochi quelli di attuarlo: in sintonia con la natura, o contro di essa. Nel fiume della vita, tra le sue correnti, nel flusso dinamico del possibile, o contro di essa, nel prestabilito, nel già detto.
 La Trasmissione che fa dolore. 

Avari e prodighi: peccatori contro la propria persona e contro gli altri. Violenti. Nello sfondo un'aria conosciuta: "a chi ha sara' dato e a chi non ha sara' tolto quel poco che ha". 

La parabola dei talenti ripropone l'importanza della disponibilità a fare, dell'impegno personale. Il padrone punisce colui che, per paura, non ha agito e non ha prodotto, quindi, valore. 
Quel poco che aveva, quella virtù, quel potenziale, quelle capacita' non investite finiscono per sfumare, vengono tolte, sono perse. Se tu hai (le capacita') e non fai (valore), non hai più diritto di avere, quindi ti vien tolto, perdi tutto, ti spendi nell'inutile vagheggio generale, perdendo te stesso e chi ti circonda.

Avari e prodighi. Dante li colloca tra gli incontinenti, tra coloro che non sanno dosare il valore di ciò che hanno e che potrebbero fare. 
Essi accumulano senza dare, e sperperano senza realizzare.

 Alla stanchezza dell'azione non consegue la soddisfazione del risultato raggiunto, ma la sofferenza della ripetizione infinita. Nulla ha più senso... Ci si affanna, si percorre tutta la strada, ma poi si ricomincia, sia pure nella direzione opposta. 
Quando finalmente si incontra l'altro, che vive, in fondo, la stessa condizione, gli si sputano contro sentenze. 
Immagini orribili. Un sogno di morte.

La violenza dell'ignoranza, di chi non sa e non può capire.

Niccolo' Cusano, nel De Docta Ignoranza, ripercorre la via socratica del sapere di non sapere, intesa come la più alta forma di conoscenza: solo colui che e' conscio della propria ignoranza, dei propri limiti, e' poi in grado di tendere verso il loro superamento. E magari si adopera per farlo.
 Con umiltà e pazienza.
 Tanta umiltà e tanta pazienza.
 Scivolando sui sassi, ferendosi anche, ma deciso a proseguire verso un cambiamento vitale.

 Colui che, invece, e' assolutamente ignorante non può farlo, perché non ne coglie il senso.

 Per lui, in fondo, un sogno è solo un sogno...Perché dare importanza a quelle immagini? Esse vengono, un pò incuriosiscono, ma poi svaniscono. In tanti neanche le vedono più...
 E continuerà a imprecare contro gli altri mentre percorre arrancando quel percorso vano.





* Aristotele, nella Metafisica, distingue l'individuabilita' dell'essere in quanto tale rispetto alle sue modalita' fenomeniche, ai suoi modi di apparire. Così, ad esempio, dire che una rosa é bella non esaurisce l'essenza stessa della rosa.


venerdì 3 luglio 2015

Serra Negra


Grani di sabbia sulla pelle ambrata e riflessi di luce nell'aria. Non posso guardare oltre quel mare, una distesa viva che muove con forza verso di me. Mi avvolge  da fuori ed entra, invadendomi. Liquida vita su me, sui miei piedi, e che il suolo lentamente assorbe in un amplesso tiepido fatto di grana sottile.
L'oro in terra e il turchese ovunque.. Acqua e aria nel fragore del vento e del mare. Solo io, davanti a quel cielo e dentro a quel mare. Che non finisce. Va oltre lo sguardo e supera tutto. È dentro di me in un orgasmo infinito di sole e di amore. Fatto solo di luce. È mio, è me.. In lenta avanzata mi avvolge, limpido e vasto. Poi si ritrae per gonfiare ancora e incontrarmi di nuovo. Carezza interiore, abbraccio totale.
Distese di sabbia e di vento. E una luce che non troverò altrove.


mercoledì 1 luglio 2015

Il viaggio.

Vorremmo, ma non siamo padroni del nostro universo. Non lo siamo davvero.
Schiudere gli occhi al mattino e tornare alla luce diurna tra le cose che abbiamo, in un luogo da sempre già noto non basta.

Risalendo dal sonno, rivesto di nuovo il mio corpo ed arriva, impetuosa, la fiumana di sangue che abbraccia il mio cuore, e ne incendia l'azione. Lo sento partire, lì dentro. È come una spinta, un richiamo. Mi invade.
Infine i pensieri, rumorosi e sgraditi, a dettare il menù della giornata che inizia. 

Li fermo, raccolgo la penna e riunisco i miei sogni, forzando il languore che spinge a richiudere gli occhi e la mente.
I miei sogni. A volte affiorano netti e permangono interi. A volte restano solo frammenti. In altre carezzano l'anima come piuma gentile.
 Mi sfiorano e via, dileguano al chiarore del giorno. Lasciandomi lì, a lambiccare la mente.

Viviamo in un sogno continuo ma non lo vediamo.  Viviamo avventure che poco capiamo, ogni giorno e ogni notte. Ma nel sonno é più strano.

Cosa dicono i sogni?

Nel parlarne chiediamo conforto, cerchiamo il possibile senso, riflettendo sui nessi della nostra esistenza.
Ma é un argomento tabù.
Nei tempi passati le immagini sacre hanno avuto l'attenzione di molti. A loro hanno dato la voce e ufficiale maesta': in essi la guida al cammino. Uomini di tutte le razze e di tante culture li hanno evocati, indotti e osservati.

Nel tempo in cui vivo, però, tutto qsto è perduto. Chi nomina i sogni e' un bambino oppure uno strano, uno dei tanti venditori di storie.
Chi viene a narrarti il suo sogno lo fa col sorriso, quasi a scusarsi per la sua ingenuità. Ma non vi rinuncia: racconta comunque. Il sogno ci turba, ed è esperienza comune... Come ignorarlo?
Percepiamo continue varianze: la fame, la forza, la gioia...A volte figuriamo qualcosa, in intimità con noi stessi. 

Oggi viviamo di immagini, ma la nostra cultura distorce il passato. Non le cerchiamo in noi stessi, subiamo piuttosto dei falsi prodotti: immagini indotte, immagini imposte. Sogni non nostri artificialmente acquisiti.  Ci piovono addosso con veemenza incompresa e agiscono in noi attivando emozioni, e provocando reazioni. 
Ci spingono a fare secondo una urgenza che non ci appartiene. E oscurano il radar che la natura ci ha dato. Interessi di altri che non vedono l'uomo.
  Non é l'individuo la meta finale.

Ma qualcuno si oppone, si alza al mattino e scandaglia il suo viaggio. E insiste finché non c'è tutto. E pensa e ragiona...Che sto dicendo a me stesso?
 
Finché non decide di studiarne il linguaggio. Allora va a scuola, incontra maestri, si confronta con loro finquando il discorso comincia a tornare. Si apre un pò il cielo, ed esce spontaneo il sorriso.

Non siamo padroni del nostro universo: cogliamo i bisogni degli altri e li scambiamo coi nostri. Non ascoltiamo i messaggi che inviamo a noi stessi. Non siamo addestrati a capirli.

Se sbaglio io cado. Se cado io soffro. 

Nel corpo io pago la disobbedienza a me stessa. Il corpo é parola, messaggio di vita che attua se stesso. Si nutre e si espande del proprio accadere, o uccide se stesso se manca l'azione. Parola di vita e rifiuto di morte che la natura sostanzia in un sogno concreto. Ci orienta e ci aiuta in un cammino curato. Ci lascia laddove da noi é tradita.

Non cerchiamo risposte nei luoghi sbagliati, distratti da sogni di altri che oscurano i nostri! Sveliamo il tabù, ascoltiamo la vita che parla e ci guida. Acquisiamo nel mondo il compenso all'azione: altri sogni verranno da quelli attuati.
 Ogni mossa azzeccata ne apre di nuove ed accresce il possibile fare. Il vantaggio è di tutti, ed accresce risorse per essere in più.

Un passo alla volta percorriamo sentieri che tolgono ombre alla nostra visione. 

Il viaggio di ognuno é dentro di noi.