Il Mio Blog non vuole essere un monologo, ma un invito all'incontro: pertanto sono graditi i commenti e il succedersi degli scambi che ne conseguono.
Buona lettura!

sabato 31 dicembre 2016

Bambole


Ho sempre sofferto di una personale avversione nei confronti delle bambole.

Quando ero piccola ne ho ricevute in dono da adulti per lo più incapaci di osservare, o solo noncuranti delle emozioni che potevo provare. Ero una bambina, e molti pensano che i bambini siano una sorta di gnomi poco sviluppati, quindi un pò stupidi e incapaci di porsi domande e formulare proprie opinioni su quello che vivono.

io odiavo le bambole, lo sapevano tutti. Ma allora perchè me le regalavano? Ero piccola certo, magari un pò ribelle, ma ritenevo offensivo dover ringraziare pubblicamente qualcuno che, con tanto falso entusiasmo, pavoneggiava se stesso vantando di avermi fatto un super-regalo, pur nella effettiva consapevolezza che quel regalo non era affatto gradito.

Insomma, qual era il senso?

Una conveniente esibizione di finto interesse per la mia piccola persona davanti ad un particolare pubblico? 
Assolvere ad un dovere sociale nel modo più scontato possibile (ai bambini si fanno regali, e alle bambine, in particolare, si regalano bambole)?
Offendermi gettandomi in faccia la cruda realtà, cioè che il mio stato emotivo non era oggetto di alcuna attenzione?
Ho sempre detestato le ipocrisie: quelle di chi mi trovavo davanti, e quelle a cui ero obbligata dalle buone maniere che i miei familiari tenevano tanto a far rispettare.
Mi sentivo poco credibile e fuori luogo: provavo disagio.

Sarebbe corretto dire che sono cresciuta in ambiente maschile: ho trascorso molto tempo con i fratelli di poco più grandi; sono stati i miei soli compagni di gioco fino a quando i genitori hanno ceduto ai colpi incessanti delle mie quotidiane proteste, (non mancavano pianti pietosi ed espressioni disperate), inserendomi finalmente in una scuola, con un anno di anticipo rispetto al tempo previsto, a contatto con altri bambini, fuori da quella casa che mi opprimeva.

Con loro, i fratelli, era una lotta continua; procedevamo a suon di graffi, di morsi e spintoni: riuscivamo a farci veramente del male! Ho anche perso un dente a causa di un pugno. Vabbè che già dondolava... 

In mancanza di altri compagni io giocavo con loro: avevamo biglie di vetro colorate con cui colpivamo i soldatini in nostra dotazione, ne avevamo tantissimi. I più belli erano i samurai: un esercito numeroso, tutto color argento, in vesti tradizionali, riccamente rifinite.
 Li schieravamo contro i cowboys di plastica e poi tiravamo le biglie per combattere.
C'erano anche i piccoli indiani dalle espressioni cattive, con le loro accette di guerra, le piume in testa e la pipa della pace.

  Ma i pezzi più amati erano le macchinine da scontro. Alcune venivano caricate trascinandole indietro per qualche secondo, poi le scagliavamo in avanti, addosso al nemico. C'erano pure le macchinette da corsa, che volavano sulla pista nera che assemblavamo incastrandone i pezzi, modificandone spesso il percorso: le lanciavamo così veloci che uscivano sempre di strada nelle curve.

A quei tempi, e ancora per molto in seguito, io mi divertivo a vedere i film western e sognavo di diventare un cow boy, con il cinturone allacciato ai calzoni, doppie pistole, stivali con gli speroni dorati, ed il giacchetto con le frange. 
Quindi perché mi regalavano le bambole??

Il massimo dell'offesa arrivava con l'omaggio degli accessori: potevi cambiare addirittura i vestiti!
Io non sapevo proprio che farne, con quegli oggetti inanimati, li trovavo inutili. Così finiva che li smontavo, staccandone i pezzi che risultavano aggiunti al corpo centrale, come le braccia, la testa e le gambe. Le rompevo tutte dopo pochissimo tempo, ma ne appariva sempre qualcuna in giro a fare il rimpiazzo. 

Quella che ricordo con disagio maggiore era la bambola vestita da sposa: fu un regalo di uno zio - uno zio che tra l'altro detestavo per la rigidità e l'arroganza dei modi. 
La mia famiglia festeggiava l'evento religioso della mia prima comunione - proprio una scelta consapevole e responsabile, come vuole il rituale, eh!! - , e lui portò una bambola molto grossa, coperta da una veste nuziale di raso bianco, lucido come il ghiaccio. Aveva la postura di chi sta seduto a gambe larghe, con la schiena eretta, gli occhi enormi e spalancati, ed era rigidissima. Quella notte ero terrorizzata perché la luce fioca che dal corridoio arrivava nella mia stanza faceva risaltare il bianco del vestito, in netto contrasto con l'oscurità  della notte, e la faceva sembrare un fantasma, uno spirito cattivo. 

Ricordo ancora i brividi e il senso di gelo sotto il lenzuolo.
Venne poi il momento delle bambole di ceramica: mi dicevano che erano preziose, che si trattava di qualcosa che dovevo custodire con cura, un regalo importante di cui dover essere davvero grata. 
Ohi ohi, l'espressione di quei volti era ancora più terrificante di quelle di plastica: sembravano davvero più gelide e morte delle compari a cui succedevano!


Se fai un regalo, dovresti almeno desiderare che venga gradito. Ma a volte i regali, soprattutto quelli destinati ai più piccoli, son deputati a compiacere le famiglie ospitanti, e ad ostentare disponibilità secondo convenienza.

E quegli oggetti, plasmati a somiglianza di esseri umani, erano freddi, rigidi, stupidi: io li detestavo.

Alcuni avevano la forma del neonato: per allenarmi a diventare in futuro una mamma (???!!).
Ve ne erano di gomma morbida, e di plastica dura, dal cranio liscio o con capelli ispidi, realizzati in qualche materiale sintetico.
Un giorno me ne fu regalata una che parlava: aveva un piccolo sportello nella parte posteriore, di poco sotto il collo, in cui era posizionabile una batteria. Così, una volta inserita, bastava premere il largo tasto sul davanti, nella zona corrispondente, e la bambola emetteva dei suoni, una specie di  saluto gioioso - degno del miglior film dell'orrore allora in commercio.

Ricordo che aveva i capelli scuri, le arrivavano alle spalle, e mia madre diceva che mi somigliava. Prese a chiamarmi "la sua bambola parlante" senza rendersi conto di quali tremendi sentimenti riuscisse a suscitare nel mio intimo: un misto tra l'impotenza e l'oppressione.

Ce n'era poi una che aveva gli occhi azzurri, fatti di una plastica lucida, che li rendeva terrorizzanti nella totale inespressività che le era propria. Questa bambola era magica, dicevano: bastava metterla in orizzontale che gli occhi si chiudevano. 
Era proprio così: assunta la posizione orizzontale, le piccole serrande, sagomate a rappresentare le palpebre, scendevano giù a coprire quel colore ceruleo. E la bambola "dormiva". Bastava rimetterla in piedi per tornare a vederne il colore degli occhi.
Ovviamente, la lasciavo dormire tranquilla...

Questa bambola, quando arrivò, me lo ricordo bene: ero nella camera che mi era stata assegnata durante le vacanze estive, nella grande casa che il nonno aveva fatto costruire per vedere tutta la famiglia riunita almeno in estate. Ero in piedi, tra il letto e lo specchio, e guardavo il cielo luminoso che entrava dalla finestra aperta. Volevo buttare la bambola di sotto, ma sapevo che la nonna, che me l'aveva portata, ci sarebbe rimasta male. Così la nascosi nell'armadio grigio, in fondo in fondo, dietro ai vestiti.

Credo che ci fu una sola bambola che trovò la mia approvazione: era quella gitana. Si trovava nella casa della nonna materna, tenuta come soprammobile su una colonnina di marmo, nell'ingresso, vicino alla porta d'entrata. 

Mi piaceva osservarla, ne ero affascinata: si trattava di una figuretta snella, con indosso un'abito rosso lungo, tutto plissettato fino alla lunga coda che scendeva dietro le caviglie, a strascico. Rappresentava una ballerina di flamenco, dalle braccia alzate, con le nacchere scure tra le dita, in quella tipica postura che fa avvicinare i polsi, mantenendo distanti tra loro i gomiti con una certa grazia. Sulle spalle aveva un scialle nero ricamato, che terminava di tante piccole frange che si muovevano al più lieve tocco.
Ricordo gli occhi allungati, segnati dal tratto nero che li rendeva davvero drammatici, il ginocchio in avanti, che accendeva nella mia mente l'idea del movimento.

 Quella bambola mi sembrava viva: la vedevo nello spazio, sinuosa, che danzava. Era impegnata in qualcosa che la rendeva bella. Chissà, forse la mia passione per la danza è iniziata in quel corridoio, davanti a quell'oggetto.
 Avrò avuto cinque anni.

In seguito, a distanza di tempo, ho scoperto il piacere che può dare la danza impegnandomi in un personale studio attento e appassionato: provavo i passi in continuazione e ovunque. Mi piaceva cadenzare il movimento nello spazio, scivolare in ritmi diversi, sentire l'aria che mi si muoveva attorno. 

Ho sperimentato un bel po': dalla ginnastica ritmica alla danza classica a quella moderna, il jazz, il funky, anche la danza del ventre. 
Tanti modi diversi di sentire il corpo nello spazio, di osservarlo disegnare figure ora lente ora forti, linee spezzate, arrabbiate, alternate a movimenti esatti, sempre più personali e sempre più miei. 

Lentamente imparavo a cogliere la bellezza del movimento, e a sentire il mio corpo nel mondo. 

Comunque le bambole hanno via via lasciato il passo ad animaletti di peluche un po' più espressivi, morbidi e gradevoli, fino a sparire del tutto. 
In quel periodo dicevo a tutti che da grande avrei fatto la veterinaria, così sarei potuta restare sempre in compagnia di animali felici, curati da me.
 La tecnologia faceva progressi, regalando un po' di espressione vitale ai giocattoli.

 In occasione di un mio compleanno, inaspettatamente, un giorno accadde qualcosa: il suono del campanello alla porta di casa, la pesante porta di noce aperta da me, e la signora Delia, inquilina del piano di sotto che, sorridendo, mi porgeva un piccolo mazzo di fiori: un gesto delicato, semplice, personale.

 Mi ero finalmente liberata di quegli stupidi oggetti.
Così pensavo.
Ma non era così.

Crescevo e mi confrontavo con altri coetanei. Ero avvezza ai giochi maschili, ai modi maschili, ai vestiti maschili. Io non frignavo come le altre ragazzine per sciocchi dispetti, non avevo segreti da sussurrare all'orecchio delle amichette, non mettevo il colore sulle unghie, e non sopportavo quei giornaletti che ammiccavano a chissà quali notizie per sole ragazze...

Loro carine, ammirate, elogiate. Loro inutili e sciocche, poco espressive come  le bambole che non mi piacevano affatto. Stavano lì, come oggetti passivi tra altri giocattoli sparsi: io mi annoiavo in quell'anonimo mondo.

Ma di bambole ne ho incontrate ancora parecchie, poi dopo, di sesso femminile come anche maschile.
A volte ancora oggi qualcuno mi invita a giocarci, me le porta davanti, ed io mi domando se è solo una svista o se si tratta invece di un dispetto voluto. Magari mi stanno solo mettendo alla prova, per vedere se so rispettare il mio tempo rivolgendomi altrove.

Le osservo curiosa: sono schermi su cui proiettare tante strane avventure: strumenti ottimali per costruire vicende ideali  che sostituiscano quelle reali.

Sono involucri vuoti, colmabili in varie maniere: siano esse messaggi, valori ed idee. Togliere e mettere: cambiare senza dolore e in modo veloce ciò che altrimenti non si potrebbe toccare. Un ottimo modo per assoldate ubbidienti postini.
Che tanto, poi, non lo sanno nemmeno.

Un ottimo trucco che dovrei ogni tanto imparare ad usare per mia utilità. 

Una scelta studiata, insomma,
   e non certo per esistenza mancata.


Perché questo tema?
Tutto è  partito da un sogno che la giovane amica ha fatto di notte. Mi ha raccontato perplessa di aver visto due donne, belle e sane davvero vicine per forma e complicità. E siccome una diceva con tono convinto di voler fare l'attrice, l'altra la metteva supina, rivelando a soggetto sognante una forma di bambola vuota all'interno.

E così prendeva a dividerla in parti, attraverso un attrezzo che non le toglieva la vita.

E lei, l'autrice del sogno, ha capito il messaggio: a volte, per vivere, diviene opportuno recitare le parti...



















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martedì 20 dicembre 2016

I tuoi sogni non sono i tuoi pensieri.



Ancora mi capita di sentire parlare dei sogni come proiezione di desideri, o solo come rappresentazione metaforica di quelle che sono le nostre riflessioni ricorrenti.

Mi occupo di immagini mentali da abbastanza tempo per sentirmi in dovere di intervenire. Signori miei: se davvero si trattasse solo di questo... Che senso avrebbero i sogni? Semplicemente la versione filmica di un dettato mentale?... Mah!

C'è in ballo molto di più.

Quello che pensiamo, lo sappiamo già: si tratta di un'articolazione razionale a livello di superficie, di coscienza. La messa in forma del pensiero richiede l'utilizzo di un codice positivo, condiviso secondo criteri grammaticali e di attribuzione di significato. Tante volte, infatti, chi parla diverse lingue afferma che per entrare in una di esse deve pensare secondo quella lingua, secondo quel codice.

Quello delle immagini è un altro codice, primigenio e universale. Significa, in soldoni, che è un linguaggio comune a noi viventi, che ci appartiene da sempre e con il quale abbiamo sempre comunicato: con gli altri, ma soprattutto con noi stessi.

Dunque, primigenio significa che c'è da sempre, dalle origini, e che quindi precede gli altri. E il modo più immediato di accedervi è quello di soffermarsi sui sogni.
Ma non si tratta solo di quello.

Le immagini le formalizziamo di continuo: sono flash, sono ricordi, sensazioni, suoni. Ci colpiscono così, inaspettatamente... Sono quelle situazioni che ci sorprendono e ci fanno dire: che strano, mi è venuto in mente... Mentre sentivo quel discorso mi è venuta una immagine.... Ero lì e ho come percepito un certo odore, che a sua volta mi ha fatto pensare a....

Niente è casuale.Dobbiamo solo investigare, così non getteremo via un messaggio che ci stiamo dando da dentro.
Ossia: i nostri radar hanno colto qualcosa prima che ci arrivassero i sensi, prima che divenisse visibile "sugli schermi'.

 Lo ignoriamo?
Direi che sarebbe un peccato.
Direi che sarebbe stupido. 

Se questo codice è primigenio, deve per forza avere nella natura il suo valore di lettura: utilità, funzionalità, natura. 
Questa immagine, cosa significa per me che la vedo? Congruenza, vantaggio, regressione? 

Il pensiero viene dopo: qui c'è l'intuizione. Qui viene rappresentato cosa precede - e quindi rende tale - il tuo pensiero. Qui la mappa di cosa ti porta a pensare in quel modo, quello che orienta il tuo comportamento.
E l'immagine, in modo sincrono, ti dà la risultanza: è un buon modo per me? O lo è solo per chi me lo ha trasmesso? E che succede se continuo? Quali alternative possibili?

È la descrizione di quanto avviene in sala comando, insomma, una descrizione che non è utile ignorare.

Quindi no, a dispetto di un noto ritornello, i sogni non son desideri, né semplici pensieri: i sogni sono lo specchio della nostra realtà. 









venerdì 16 dicembre 2016

Essere ingrato


Il contadino lavora la terra. Lui sa che il compito è arduo e faticoso nel tempo, ma sceglie di procedere oltre. 
Indossa stivali pesanti e muove e smuove la materia indurita affinché l'aria, miscelandosi insieme con lo scuro elemento, ne ingentilisca le importanti virtù. E mentre nel cielo viventi arpagoni misurano i suoi movimenti, egli si muove con lena, e nei solchi ben ben sistemati, rovescia manciate di promettenti semini.

Pensa il contadino al domani, alle tenere piante verdine che solleveranno, spostando, le zolle, per ergersi su verso l'azzurro del cielo. Crescono i teneri fili nutrendosi di quanto la terra può dare, e di quanto saranno capaci di cogliere di ciò che la saggezza dell'uomo vorrà destinare.

Semina l'uomo e cura la terra, ascoltando le promesse del cielo e del luogo, e va incontro alla sera e poi alla mattina, tra gli odorosi umori del suolo e i bagliori del cielo.

Una nuova stagione è la promessa di un nuovo scambio di vita.

Si affacciano alfine alcuni germogli, sedotti dal sole e dall'aria si ergono in su, verso l'azzurro che domina tutto. Rimangono altri più indietro, gravati da una peculiare lentezza. 
Alcuni semi son stati rapiti dal vento e chissà poi di loro che cosa ne è stato... Altri ancora mangiati da individui affamati, o solo riposti in piccole tane, in attesa dei momenti più ardui.

Tra tutti ci sono anche quei semi che invece non si sono mai mossi: rimangono comodi sotto il tappeto di polvere scura; non indossano il verde mantello né gli alti calzari. Son lì che dormono fermi, indifferenti alla ricca abbondanza che è pronta a nutrirli.  

Snobbano questi la voglia di fare, assente l'istanza di vita: la fatica dell'uomo non solletica la loro esistenza e rimangono al buio, inutili e fermi.
E se i loro compari hanno dato bei frutti, loro accusano il campo, la terra, il lavoro dell'uomo, loro inveiscono contro il fato crudele che nulla ha prodotto per loro. 

E rimangono giù, tra sassi e radici, in un letto freddo e silente da cui potrebbero ancora, se solo ne avessero voglia, assumere ciò che serve ad ognuno di loro.

E' ricco il mio desco di preziose vivande: festeggio con chi mi è d'intorno, godendomi il premio del lungo lavoro. Non si colma però il terribile vuoto di chi, per colpevole e stupida accidia, ha preferito restare a dormire...







sabato 10 dicembre 2016

La pagliuzza.



Ho superato i quaranta e da svariato tempo sono informata del fatto che sarebbe accaduto: col tempo si modifica la struttura dell'occhio e la modalità visiva cambia a sua volta.
Questo è ciò che sta dietro le facce - mi dicono - di chi porta sul naso le lenti con doppia finestra, le bifocali: quelle di chi non vede più bene da vicino e deve quindi far uso di strumenti che consentano la buona visione, vicino e lontano.

È arrivata anche a me, penso: è il tempo di trovare lenti migliori. Mi sottopongo ad una visita medica, e si... Un pò la vista è cambiata, ma non sento parlare di alterazioni strutturali.... Piuttosto parole che indicano stress e stanchezza, poi sento nominare l'età... Ma neanche un accenno a quella varianza legata - sembra per legge - al superamento degli "anta"...
Comunque cambio le lenti... La miopia ha fatto un piccolo balzo in avanti, ed io mi adeguo, prudente, per garantire una sicura guida notturna.

Provo, ma nessun cambiamento: quel dolore diffuso attorno all'occhio sinistro - quello che l'oculista ha chiamato "il mio occhio buono" - non è svanito, non è calato neanche di poco. Sembra anzi aumentare: un dolore di fondo, sordo e continuo, persiste con la sua fastidiosa presenza. La palpebra stessa inizia a gonfiare, divenendo molto evidente sul volto di sempre che osservo allo specchio
Niente trucco al mattino e molto molto collirio, ma l'occhio continua a dolermi.

I conoscenti elargiscono saggi consigli non chiesti: devi farti vedere, devi indagare sul fondo, sottoporti ad esami mirati!
Non voglio saperne: già prefiguro un percorso asfissiante, spintonata da un esame ad un altro, con la preoccupazione che cresce via via che aumenta la confusione di chi dovrebbe curare: gocce, pasticche, antibiotici... E poi altri controlli, e risposte evasive.

Secondo la scuola che seguo gran parte di quanto ci accade è solo l'effetto di una causa che agisce ad altri livelli, e che denuncia se stessa attraverso sequenze di immagini apparentemente insensate: la psicosomatica.

Inizia l'indagine seria: le immagini, la consulenza professionale, il confronto con la realtà che vivo in prima persona.

Qualcosa mi offende, lì dove vedo con "l'occhio buono", dove il mio sguardo è più sano. Accadono fatti che osservo e che offrono spettacolo indegno ed osceno, offensivo per giunta. Osservo e mantengo la mira: attenta, serissima, e molto alterata. Ma l'occhio in tensione si stanca: è tempo di agire, mi tocca infine sparare.

Un respiro profondo: con l'aria che entra metto insieme gli eventi, e con quella che esce rigetto l'offesa. 
Io spingo il grilletto dalla mia postazione, con modi aggraziati e discreti, nel rispetto della mia persona e di chi con essa è coinvolto.
L'obbiettivo mirato è raggiunto.

Come un cecchino ho mirato, paziente ed attenta. E come un cecchino ho sparato, liberando me stessa e punendo il reato. Ora lo sguardo è a riposo, e con esso il mio viso rilascia tensioni e dolore. Finalmente la palpebra inizia a sgonfiarsi.

Non sono le lenti diverse, non è il fondo dell'occhio né i quarant'anni suonati, ma la mia dignità che reclama a gran voce il suo spazio nel mondo.








martedì 6 dicembre 2016

Sulla conoscenza: immagina.

Scrivo questo post in risposta alle riflessioni di De Negri su "i modi del conoscere" pubblicate su Agoravox nei giorni scorsi.

Ringrazio innanzitutto l'autore per aver citato la mia persona, compiaciuta del fatto che ciò che scrivo può stimolare riflessioni in chi mi legge.
Testo
Dunque, l'autore ci dice che l'uomo in cerca di conoscenza può appellarsi alla capacità di astrazione, all'istinto e all'esperienza diretta. Lo stesso può anche far uso dell'arte dissimulatoria, ed utilizzare a suo piacere la menzogna per dire la verità. 

Nell'elenco dei molteplici strumenti descritti e corredati di esempi applicativi, ne è stato però trascurato il più elementare, che proprio a causa di tale sua elementarità naturale tendiamo un pò tutti a tralasciare, dimenticando di riconoscergli la giusta importanza.

Provvedo quindi immantinente a colmare la lacuna.
Da sempre gli uomini si sono espressi attraverso le immagini: abbiamo appreso molto delle civiltà che ci hanno preceduto solo osservando le immagini che ci hanno lasciato, sin dalla siddetta "preistoria". 

Attualmente viviamo in quella che i sociologi chiamano "la società delle immagini", bombardati da esse e desiderosi di riceverne ancora: non sappiamo proprio farne a meno. Gli stessi pc, non sapremmo più utilizzarli se perdessero quelle capacità grafiche che ne fanno tanto lievitare il prezzo. 

Le immagini ci circondano, ci spingono a provare emozioni, a fare cose ed azioni, e ci agevolano negli sforzi di comprensione. Lo fanno in modo corretto, a volte - il disegno delle posate vicino ad un piatto presso una zona di ristoro, ad es. - e perverso in altre - basta osservare qualche spot pubblicitario...

Il tanto sovrastimato Freud ha definito le immagini come il linguaggio dell'inconscio, il linguaggio universale che accomuna gli uomini e li allerta sulle coordinate di quanto stanno esperendo. Purtroppo Sigmund inseriva le sue riflessioni in un contesto limitato a dinamiche meramente sessuali, ma ricordiamoci pure che la sua "Interpretazione dei sogni" risale al 1899.... Insomma, era figlio del suo tempo e di una cultura storica ben definita!

Con Jung il discorso cominciò a farsi serio... Anche se sarebbe più corretto dire che tornò a farsi serio. Si, perché in passato - un passato davvero lontano - gli uomini davano molta importanza a questo linguaggio.

I medici stessi tenevano conto dei sogni dei loro pazienti che, osservati in concomitanza con la situazione personale, usi e abitudini degli stessi, emergevano come fondamentale strumento diagnostico.
E questo lo ritroviamo nelle culture più antiche e più distanti tra loro, da oriente a occidente. 

Da noi, in occidente, fu per via dell'intervento del clero, con l'avvento del medioevo, che lo studio delle immagini venne bandito. Accusati di paganesimo e condannati a morte se avessero proseguito l'esercizio di tale scienza, gli esperti furono costretti al silenzio, e la loro arte indirizzata all'oblio. 

I barbari scorrazzavano liberi, predando un potere che solo la Chiesa riusciva faticosamente a contrastate: perché vi fosse forza (potere) era necessaria l'obbedienza del popolo ad un solo sovrano che, per grazia divina e con incontestata autorità, tenesse docilmente unita la gente nel rispetto di un ente (rappresentante e portavoce terreno del divino) riconosciuto nel ruolo debitamente sponsorizzato di dispensatore unico (unicamente autorizzato dall'alto, appunto) di conoscenza e salvezza.

Molti studiosi migrarono dal decadente Occidente in direzione dell'illuminato Oriente, e lì diffusero e approfondirono le proprie conoscenze, contribuendo alla traduzione di testi classici e al dialogo scientifico. Il convergere di culture diverse rese possibile, in quei luoghi, la creazione di scuole e di centri culturali importanti, che attiravano a loro volta scienziati da ogni dove.
Gli scambi economici poi, e gli spostamenti dovuti alle stesse crociate, riportarono in patria quella stessa cultura che ivi era stata oscurata e aveva così contribuito al perseverare dei tempi bui e del tragico processo involutivo ben noto.

In Oriente però quei saperi avevano raggiunto elevata eccellenza, e fu proprio per merito del loro ritorno che prese piede quell'epoca viva che abbiamo chiamato "Rinascimento": l'epoca in cui l'uomo, riscosso dallo scuro torpore, cominciò a reindirizzare curiosamente lo sguardo verso se stesso, verso il proprio sentire e i propri strumenti. 

Si tornò a parlare di immagini, si rispolverarono gli antichi trattati sulla lettura ed il valore dei sogni, e si è ripreso un cammino che non ha trovato più interruzione.
Non mi dilungherò sulle fanfaronate di chi scimmiotta la scienza per bieco interesse commerciale: ce n'è per tutti e in ogni campo... Figurarsi sulla lettura dei sogni!

Aristotele, attento studioso della natura e dell'essere umano, nonostante la fama di efferato empirista, scrisse nel De Anima che il sonno serve a recuperare le energie consumate, e i sogni che intanto intervengono hanno a loro volta una funzione importante per indirizzare le azioni del giorno e comprendere quanto accade nel nostro interesse.
E sono stati in tanti a pensarla così, prima e dopo di lui.
Molti scienziati hanno trovato importanti risposte nelle immagini che hanno donato a se stessi durante il riposo, ieri come oggi.

Si, ma come comprenderne il senso? 

La prevaricante modalità razionale ha intasato i nostri canali adibiti alla capacità di comprendere, offuscando gli stessi processi intuitivi: una coltre di ipotesi e dubbi soggiungono così ad oscurare la naturale visione. Assetati di conoscenza, sempre in cerca di nuovi strumenti, abbiamo dimenticato quelli che, primi, ci ha fornito la nostra natura, e che pure permangono in noi funzionali.

La natura ci ha fatti ed essa ci guida attraverso se stessa, con allerte immediate che noi trascuriamo.

La natura ci parla secondo se stessa, usando un linguaggio che può andar bene per tutti: l'immagine è il modo più rapido di cui noi disponiamo per recepire un messaggio.

E dunque, come ignorarla?

Così, quando al risveglio rimangono vive le impressioni visionate nel torpore notturno, attenzione: si tratta di noi! E' importante rivolgersi ad esse con il giusto rispetto e con la dovuta umiltà.





lunedì 5 dicembre 2016

In forma

Mi occupo di formazione. 

Ma cos'è questa formazione? Che significa?
Lo sguardo confuso di chi cerca chiarimenti davanti ad una espressione tanto oscura!
Tanta perplessità può venir dissipata solo facendo luce sul pressapochismo che pervade, ahinoi, buona parte della cultura in cui viviamo. 

La legge dello stato prevede che gli uomini acquisiscano - almeno nella fase iniziale della propria vita - alcune nozioni e competenze di base, ritenute essenziali per arrivare a condividere una esistenza nella comunità che li circonda.

I bambini quindi vanno a scuola, e farlo, per loro, è al tempo stesso un diritto ed un obbligo.
Il primo, il diritto, vale nel rispetto di una prospettiva soggettiva e individuale, e poggia sull'assunto che individua nell'istruzione uno  strumento essenziale per la realizzazione  personale: attraverso di essa chi ne fruisce acquisisce importanti strumenti per camminare ben eretto tra gli arzigogoli delle complesse dinamiche sociali.

Quanto all'obbligo, è un aspetto che emerge da una riflessione comunitaria ed estroflessa, orientata in  senso etico verso la dimensione  sociale.
Ossia: se vivo ed esisto insieme con altri, bisogna che ne condivido regole  e principi, al  fine di garantire una interazione  possibilmente rispettosa, pacifica e funzionale.

Il limite dettato dal summenzionato pressapochismo, però, consente agli individui una  percezione del tutto ridotta del senso della "formazione", tant'è che utilizziamo generalmente l'espressione "scuola dell'obbligo" per indicare proprio l'esordio di tale percorso che gli uomini affrontano in giovane età.

Così alla concezione della formazione ci abituiamo ad affiancare  il pesante concetto della obbligatorietà, un coperchio rigido e pesante che aggrava e intorpidisce la mente, condizionando la possibile futura capacità di comprensione della reale sostanza del fenomeno.

Le parole che noi  utilizziamo per indicare eventi e attività sono di fondamentale importanza. Definendo, noi connotiamo emotivamente, moralmente, eticamente. Nel dire noi esprimiamo giudizi, e nel ripetere li diffondiamo radicandoli. Ed è proprio questo ciò che facciamo attraverso l'esercizio quotidiano della lingua: costruiamo mondi di significato, disegnando relazioni di senso.

Ecco il modo in cui gli uomini, dall'interno, facendone uso, fanno la lingua e determinano i costumi. Banalmente e ironicamente potremmo dire che l'evoluzione in tal senso è  solo l'effetto  di concatenazioni di fraintendimenti, per quanto tale
dichiarazione possa suonare paradossale. 

Fraintendimenti, deviazioni, slittamenti: microvariazioni dovute a piccoli spostamenti di senso, a decentramento di sfumature, a prevaricazione di percezioni, a dinamiche emotivamente connotate.
Anna Harendt, nel "la banalità del male", mostra con pacata e sobria eleganza la portata di questa dinamica laddove riporta le dichiarazioni esposte in tribunale da Otto A. Heichman, ritenuto il principale responsabile delle deportazioni degli ebrei durante il periodo nazista.

L’autrice evidenzia il fatto che quegli individui - i nazisti - resero più sopportabile alla parte umana di se stessi quel che facevano sotto la guida del regime attraverso l'utilizzo di un linguaggio "più opportuno": gli operatori non parlavano mai di assassini, uccisioni, eliminazioni... Ma dissertavano di "questioni mediche"; l'espressione deportazione era sostituita da "trasferimenti"; le vittime non erano cacciate dalle loro case, ma aiutate a trovare un posto migliore in cui vivere; i loro averi non erano rubati, ma parzialmente utilizzati per aiutarne i  possessori a portarli altrove...
E quelle modalità espressive appartenevano al mondo di chi le utilizzava in modo così radicato che durante la deposizione stessa l'interrogato si sorprendeva delle puntualizzazioni della controparte che rimarcavano la meta' nera della mezza luna appena descritta.

Il linguaggio, insomma, descrive il modo  in cui percepiamo ciò che viviamo, e nel farlo, contribuisce a condizionare la nostra percezione.

La formazione - per tornare al discorso iniziale - viene oggi generalmente compresa come una prassi informativa temporalmente scandita e definita: un percorso che ha un inizio ed una fine, la cui resa è  documentabile attraverso il diploma rilasciato a fine corsa.

E questa idea è talmente diffusa che si è arrivati al punto di dover definire il concetto di "formazione continua", attraverso la messa in atto di simposi, pubblicazioni e documenti istituzionali. Si è ritenuto cioè necessario asserire - con tanto di toni ufficiali, citando bandi, provvedimenti e pubblicazioni di autorevoli personaggi - che sarebbe opportuno che l'individuo, membro di una comunità, per il bene proprio e della società che condivide, fruisca di un percorso che garantisca la formazione continua: la vita scorre e cambiano le dinamiche sociali, quindi ognuno deve esser in grado di muovervisi dentro con dignità. Ognuno deve cioè sapersi adattare ai mutamenti che intervengono nelle situazioni in itinere.

Illuminazione culturale: e che, c'era bisogno di dirlo??
..."La banalità della cultura" - per dirlo con Harendt!

La lingua tedesca usa il termine " Bildung" per indicare la formazione: un termine che rimanda al concetto di costruzione graduale e a quello di strutturazione. Qualcosa che implica una progettualità, una composizione integrata di esperienze che modificano, costruendola, la personalità di chi le vive.

Qualcosa di molto diverso, dunque, dalla passiva acquisizione di determinati contenuti in un periodo cronologico predefinito.

La formazione è un processo interminabile, attiene alla sfera del conoscere, del comprendere e quindi del fare se stessi. E questo movimento accretivo è  in funzione sempre, e vale in ricezione come anche in emissione: nel momento in cui io faccio per me, le risultanze del mio fare si riflettono su chi mi sta intorno; nel momento in cui io cambio la mia prospettiva ho modo di vedere e trasmettere sfumature e immagini di altro tipo. 

La dimensione individuale è intrinsecamente connessa a quella sociale, in uno scambio infinito di reciproci rimandi e provocazioni verso risposte che si modificano - guai se così non fosse - ad ogni ulteriore paesaggio reso visibile.

L'ontologia è immersa nell'etica, la rende possibile e ne è costituita. Etica ed ontologia sono interdipendenti: per come sei tu fai, e il come fai ti rende quello che sei.

Il cerchio però non è chiuso - e questa è la bella notizia - perché la vita è movimento, è dinamica, è espressione di essere e fare, e rimanda al sapere performante, il quale non può avere un inizio e una fine.

La formazione è permanente - che ce ne rendiamo conto oppure no - e nella sua costanza implicita può essere funzionale, evolutiva o regressiva, utile o limitante. 

 Ora, è solo a partire da questo modo di concepire la formazione, che si può estendere il discorso agli interventi formativi specifici, orientati all'acquisizione o affinamento di talenti particolari che, a loro volta, contribuiscono a orientare, provocandone ulteriormente lo sviluppo, il lungo percorso formativo di ciascuno. 

Io mi occupo di formazione, e per me 
formare significa nutrire, alimentare, affinare e stimolare le attitudini di chi si
sottopone al processo in questione. 

Mi piace credere che un individuo, correttamente stimolato, si faccia artefice cooperante di una società responsabile, rispettosa e in evoluzione continua. Un individuo capace di lasciare impronte utili al suo passaggio.

La realizzazione di una società sana e funzionale è resa possibile solo a partire da individui sani e funzionali, che si confrontano con opzioni possibili nello sviluppo costante del proprio potenziale.
È  quindi  di primaria importanza  sapere da quali immagini i loro modi siano condotti...